Diario dal Festival del Teatro di Piatra Neamt
13 settembre 2022 - mondo e teatro
Di Erica Magris
Il Teatrul Tineteretului si trova al limitare del
centro storico-culturale, una spianata pedonale dove sorgono i resti della
corte rinascimentale di Stefano il Grande, diversi musei e un parco.
L’edificio, costruito nella prima metà del Novecento, richiama l’architettura
tradizionale della zona, con i suoi abbaini decorati e il tetto spiovente
coperto di tegole di ceramica lucida. Le bandiere poste fuori dal teatro con la
loro grafica contemporanea, le scritte e i disegni sulle vetrate – riconosco «Adesso», «Presente», «Oggi», «Teatro» – contrastano con l’aspetto
elegante e storico dell’edificio pur senza cancellarlo o svalutarlo. Malgrado
le mie perplessità di fronte all’importanza crescente che le istituzioni
teatrali danno alla comunicazione – nuova direzione, nuova
grafica! –, questi segni contemporanei mi sembra costituiscano un’efficace
dichiarazione di poetica: il teatro conserva il suo carattere di «bel»
monumento della vita cittadina, testimonianza della sua storia recente, ma si
pone anche e soprattutto come luogo aperto, attuale, informale, vivo.
Il Teatrul Tineretului è il quartier generale
del festival e accoglie ogni sera uno spettacolo differente, mentre nel
pomeriggio gli spettacoli si svolgono piuttosto nella «scena mobile», una
palestra adattata per l’occasione poco fuori dal centro. Inoltre, il festival
si dissemina in altri spazi culturali– fra cui il museo d’arte, il «palazzo
dei bambini» – e all’aperto, con una molteplicità di eventi differenti:
concerti, mostre, proiezioni, presentazioni di libri,
laboratori… Nell’immancabile tote bag che recupero al mio arrivo, trovo un utilissimo
volantino pensato proprio per gli spettatori venuti da fuori, dove su una
piantina sono indicati le diverse location del festival, le principali
attrazioni turistiche e altri luoghi di interesse. Viene subito voglia di
esplorare e di vivere la città, al di là dell’intensa programmazione del
festival, presentata in un colorato libretto bilingue rumeno/inglese. Non mi resta che poggiare la valigia in albergo e uscire.

Ho poco tempo per raggiungere la Scena mobile, dove scoprirò
Da-te din soare (Get out of the sun) della compagnia indipendente
Reactor
de creatie si esperiment di Cluj-Napoca. Tenendo sempre un occhio alle frecce
bianche dipinte al suolo, mi guardo intorno: gli imponenti, austeri condomini
dell’epoca comunista affiancano delle belle ville storiche, alcune in stato di
abbandono, altre restaurate di recente, e dei giardini lussureggianti di meli e
viti, circondati da elaborati cancelli in ferro battuto. Città e campagna
coesistono, come diversi strati di passato della tormentata storia rumena che i
programmi urbanistici del regime di Causescu non sono riusciti a cancellare del
tutto. L’atmosfera è gradevole e tranquilla, con tanti giovani e tante famiglie
che passeggiano per le strade.
In fondo a un vialetto trovo la porta metallica della Scena mobile ed
entro. Fra le pareti della palestra con i suoi attrezzi, sono stati installati
dei puff colorati per gli spettatori in attesa. Dietro una tenda nera si trova
poi una piccola gradinata posta di fronte una scena non sopraelevata, aperta, delimitata
solamente da una graticcia ben visibile: è uno spazio duttile e funzionale, che
permette una vicinanza non forzata fra attori e spettatori.
La scena, a vista,
sembra un cantiere: un siparietto bianco longitudinale appeso a un filo
metallico, degli sembra un cantiere: un siparietto bianco
longitudinale appeso a un filo metallico, degli scatoloni, un tavolo con una
console e un computer. Su due schermi a lato della scena saranno proiettati i sottotitoli in inglese, che
sollievo!

Si fa buio, lo spettacolo comincia.
Gli inconfondibili riquadri di zoom appaiono sul telo
bianco, mentre su scena, un pope canta con un computer in mano. Inizia così una
scena esilarante che ci riporta indietro al tempo, completamente rimosso,
almeno sulle scene francesi, del lockdown. Non senza difficoltà, i famigliari
di un defunto – fratelli, sorelle, figlie e nipoti – si connettono per celebrarne il funerale online: sullo
schermo, si rianimano i conflitti, le rivalità e i risentimenti nei confronti
dell’ingombrante caro estinto, mentre un pope frettoloso e attentissimo al valore economico del tempo
cerca di disciplinare i presenti per terminare al più presto la cerimonia. A
poco a poco, il piano della situazione slitta e quando il siparietto viene
aperto e si scopre la bara al centro della scena, si capisce che chi si sta
seppellendo è in realtà il teatro, o meglio il «teatro di prima», il «vecchio teatro», il cui spettro si manifesta sullo schermo del computer che il
pope continua ad agitare come un’incensiere: vi si scorge infatti il video di
un altro spettacolo – credo si tratti di Spooks di Alexandru Dabija – in
cui un funerale viene celebrato da figure tipizzate dell’immaginario rumeno. Da
questo duplice riferimento alla pandemia e alla situazione del teatro si dipana
un’azione metateatrale esplosiva in cui la giovane compagnia si interroga sul
rapporto fra generazioni, sul senso e sui modi del fare teatro oggi. Per uscire
dall’impasse creativo, viene fatto appello allo stesso Dabija evocato durante
il funerale, regista classe 1955, figura tutelare del teatro di ricerca rumeno,
di cui peraltro uno spettacolo, Rebarbor, è programmato nel festival.
Dabija appare allora in scena come un deus ex machina, interpretato da
un attore che ne rende i modi burberi, le espressioni dirette, il gusto della
provocazione. Entriamo così nel processo creativo di questo spettacolo a venire
e scopriamo l’eccitazione, i tentativi falliti, le disillusioni, e soprattutto
gli interrogativi cui i giovani sperano di trovare risposta nel loro maestro
(teatro politico sì o no? come? dialogo o monologo? documentario o finzione?
corpo o parola?). Il cantiere si anima e gli attori-operai inventano nuove
situazioni drammaturgiche attraverso la manipolazione e la trasformazione
continua degli elementi scenici: lampade, videoproiettori, ghirlande luminose,
microfoni spostati a vista; suoni e luci regolati dalla console o con un
telecomando; e soprattutto cartoni, cartoni e ancora cartoni, lanciati,
impilati, malmenati e aperti, per tirare fuori corone di fiori di plastica o
lasciar apparire luci colorate. In questo «caos organizzato», come lo definisce
a caldo Béatrice Picon-Vallin uscendo dalla sala, costruire
sembra impossibile, ma non si vuole nemmeno distruggere. Alla fine, ascoltiamo
la voce off di Dabija stesso che afferma di non curarsi della sua eredità e di
quel che il teatro sarà, mentre gli attori compongono sulla scena un enorme
dito medio di fiori, che viene poi issato in fondo alla scena. Questo gesto
iconoclasta, però, viene bilanciato dall’entrata di una vecchina col foulard in
testa, che pare uscita dal teatro superato evocato all’inizio, che si avvicina
e offre da bere agli spettatori. Nell’ironia e nell’autoironia che questi
attori dimostrano rispetto all’inadeguatezza degli artisti delle generazioni
precedenti e alla difficoltà della generazione
più giovane a rispondere alle grandi questioni del nostro tempo – il
cambiamento climatico, ma anche le nuove prospettive su genere e identità, la pandemia, la guerra – traspare al fondo una sorta
di benevolenza, di ottimismo della volontà, in cui il
fare artigianale e corale del teatro ha comunque il valore prezioso di un’esperienza,
di un incontro, anche mentre se ne dichiara quasi la sua impossibilità. Il pubblico, composto per la maggior parte da
giovani, applaude entusiasta, dopo aver riso tantissimo. Pure noi stranieri,
per cui i riferimenti alle scene rumene e ai loro protagonisti risultano
alquanto oscuri, siamo stati travolti dall’energia e dall’humour dei sei attori
in scena che sono riusciti a toccare, con apparente leggerezza, dei punti
sensibili del nostro stare al mondo oggi. Il dibattito con gli attori che segue
lo spettacolo è vivace e porta soprattutto sul processo creativo, iniziato
durante la pandemia e durato molti mesi, sul lavoro collettivo e sul ruolo
della regista, Lena Popescu, e dalla drammaturga, Alexa Bacanu, sulla scelta di
interpretare in scena Dabija. E nel riso imbarazzato che scoppia fatidica
domanda «Ma Dabija, l’ha visto lo spettacolo?», si avvertono il rispetto, la
conoscenza profonda e l’affetto per quello che resta, nonostante tutto, un
maestro. Da-te din soare celebra il funerale dei padri, ma non ne
commette l’assassinio.
Con questi pensieri torno in fretta verso il
Teatrul Tineretului.
Sulla spianata riesco solo ad assistere al finale di Exodul (Exodus)
del Teatrul Masca di Bucarest, che affronta con la tecnica delle statue viventi
il dramma dei rifugiati ucraini e di tutti coloro che sono stati obbligati
dagli eventi a lasciare la loro casa e i loro affetti. La musica risuona,
mentre di fronte a un’immagine da cartolina di un campo di girasoli, un fila di
uomini e donne coperti coi vestiti e i volti coperti da segni di pittura,
guarda, immobile, il pubblico. Di fronte a essi, una distesa con sparse qua e
là delle valigie e una carrozzina anch’esse coperti di pittura. La scena, nella
sua dimensione poetica, è potentissima nell’esprimere attraverso pochi semplici
elementi l’orrore dell’esilio, della fuga, su un piano che riesce allo stesso
tempo ad essere universale e a puntare l’attenzione su questa guerra, qui e
ora, così incredibilmente vicina.
La guerra in Ucraina è costantemente presente nella
hall del Teatrul, dove, sotto un enorme tronco d’albero attaccato al soffitto
al posto del lampadario che sembra abbracciare gli spettatori con le sue radici
aeree, è organizzata la mostra AICI. ACUM. De pus in rama (HERE.
NOW. Worth framing) in cui sono esposti dipinti che dei bambini ucraini
rifugiati a Piatra Neamt hanno realizzato sotto la guida dell’artista Ciprian
Istrate. Osservandoli, mi preparo allo spettacolo che mi attende, che tratta
direttamente del conflitto in corso: Ukraine. Letters from the front
prodotto dalla Vaba Lava Foundation, un centro sperimentale basato in Estonia.
Creato da Yulia Aug, un’attrice e regista russa di
origini estoni che ha fatto parte del Gogol Center diretto da Kiril
Serebrennikov, lo spettacolo è basato sulle sua corrispondenza con amici
rimasti in Ucraina, costretti a vivere nei rifugi. Il dispositivo scenico è
molto semplice e rende sensibile l’idea della precarietà e della fragilità: tre
lenzuola stracciate e macchiate di rosso chiudono la scena, dove si trovano un
pianoforte, delle sedie, delle scatole. Gli attori si alternano per leggere
semplicemente le lettere dal loro telefono, dall’inizio della guerra fino a
oggi. Le parole di uomini e donne di
Marioupol, Kherson, Kiev, associate alle immagini dei loro volti e dei luoghi
devastati dai bombardamenti permettono vedere il conflitto attraverso gli occhi
di chi ne subisce le conseguenze. Si compone una cronaca polifonica della
guerra, dalla siderazione dell’attacco fino al presente. Le letture sono intercalate da testi e azioni
performative che rimandano alla dimensione universale dell’orrore della guerra,
in particolare su donne e bambini – una donna di dal vestito coperto di sangue,
un fagotto insanguinato smembrato che ricorda i corpi lacerati dalle bombe –,
ma più che le immagini sono i suoni che colpiscono. Il lamento della sirena
antiaerea, attivata da un’attrice a più riprese nel corso dello spettacolo, e
il rumore sordo delle bombe penetrano letteralmente nel corpo come una scossa
elettrica e avvicinano ulteriormente alle testimonianze. La messa in scena è
molto semplice, ma efficace nel far emergere con forza il costo umano
dell’invasione e ricordare che sotto le bombe ci sono persone, non numeri, con
le loro vite e la loro quotidianità sconvolte. È un pugno allo stomaco, ancor
più necessario adesso che, dopo l’ondata di empatia mediatica all’inizio del
conflitto, si tende ormai a parlare dell’invasione ucraina in termini di
armamenti, strategie, territori ripresi o liberati, possibilità di negoziati o
minacce incombenti di guerra nucleare totale. Dopo qualche istante di quel silenzio
denso, vibrante che produce un pubblico toccato profondamente dalla scena, la
sala si alza in piedi in un lungo applauso.
Rientro in camera esausta, ma con il cervello e il
cuore in movimento. Ripenso alle scritte sui vetri del Teatrul Tineteretului e
trovo che oggi abbiano mantenuto la loro promessa. Ho scoperto a Piatra Neamnt
un teatro capace di parlare del nostro tempo, del vissuto collettivo, senza
didattismo e senza piaggeria. Un teatro d’incontro, di relazione, ma anche
forza di rappresentazione alternativa del mondo. Chissà cosa mi attende domani…