TourFest2025 | A Milano nel Quartiere Adriano per inventarsi un futuro


Di Elena Pozzi.

In Ritorno al futuro (1985), Robert Zemeckis dipingeva il 2015 come un anno in cui le auto avrebbero volato e i vestiti si sarebbero asciugati automaticamente e autonomamente. Le cose però non sono andate proprio così, ma nella periferia nord di Milano c’è chi cerca ancora di immaginarsi come potrebbe essere il futuro. Ecate Cultura, nell’afosissimo weekend tra il 13 e il 15 giugno, ci ha portati in Quartiere Adriano per la quarta edizione di Back to the future - Human Made Festival. Il festival, chiamate amichevolmente BTTF, si regge su una spina dorsale che guarda al futuro: la Direzione Artistica Partecipata Under 30, per gli amici DAPU30, composta da giovani tra i 18 e 30 anni provenienti da tutta Italia e da background molto diversi tra loro, che si è occupata dell’ideazione e della progettazione del festival. Le ragazze (e mi permetto di usare il femminile sovraesteso vista la percentuale di “quote rosa”) hanno lavorato a tutti gli aspetti di cui si compone un festival: con la scelta degli spettacoli e delle attività collaterali, ma anche in tutte le altre sfaccettature del festival, hanno cercato di dare un’identità ben precisa a questa edizione di BTTF. Come ha raccontato all’inaugurazione Claudia (23 anni), una delle ragazze della DAPU30, il fil rouge che hanno scelto è stato selezionare performance e attività che fossero anche e soprattutto azioni politiche. Il festival che riflette a pieno il pool demografico della direzione artistica. Sebbene di certo le tematiche e le azioni politiche proposte dal festival non riguardino solo chi ha meno di trent’anni, il punto di vista coincide con quello di chi si trova a cavallo tra la generazione Y e la Z, proprio come le ragazze della DAPU30. Forse proprio in quanto spettatrice under 30, mi sono resa conto di quanto i messaggi politici e le urgenze veicolate da spettacoli e attività collaterali mi appartenessero.

Non ho chiesto (io) di venire al mondo
Nella performance che ha aperto il festival, Non ho chiesto (io) di venire al mondo (vincitore del Premio Cantiere Risonanze Network 2024 e del Bando Nuovo Grand Tour 2024), ho ritrovato ad esempio un’atmosfera che avevo smarrito da anni: quella dell’infanzia. I quattro performer (Alessandra e Roberta Indolfi, che curano il progetto e sono in scena con Eleonora Gambini e Giuseppe Zagaria) ci portano per 40 minuti nella piazza accanto a Magnete, lo "spazio di relazione e pluralità" che è il polo principale del festival e la sede di tutti gli spettacoli, animandola con salti e giochi che altro non possono fare che portare indietro a un tempo in cui passavamo ore in cortile a giocare a campana, a mosca cieca e a ce l’hai (anche qui forse c’è un po’ di Ritorno al futuro). Il rumore scenico si mischia a tutto quello che scenico non è: automobili, bus, passanti, televisioni e radio che parlano con la piazza dalle finestre del palazzo che la circonda. Se si riesce a superare l’idea che questi suoni siano un disturbo alla performance e a capire che tutto ne fa invece parte, tutto contribuisce alla trasformazione, a trasportare lo spettatore in un’altra dimensione, la dimensione del gioco. Qui si può giocare per il solo gusto di farlo, ci si può staccare dalla costante necessità di produrre, di dare un’utilità a quello che si fa.











Non ho chiesto (io) di venire al mondo (ph. Alvise Crovato)

Ca-Ni-Ci-Ni-Ca
Forte la tematica dell’iperproduttività anche in Ca-Ni-Ci-Ni-Ca, lo spettacolo che ha invece chiuso il festival. Tema dello spettacolo, decisamente meno giocoso del precedente, è lo sfruttamento lavorativo nelle filiere agro-alimentari, con particolare riferimento a un prodotto che è probabilmente l’emblema della cucina italiana: la passata di pomodoro. Greta Tommesani e Federico Cicinelli, insieme attori e autori di Ca-Ni-Ci-Ni-Ca, riescono a trasmettere perfettamente l’alienazione a cui un posto di lavoro improntato all’iperproduttività necessariamente conduce. I movimenti meccanici e ripetitivi di Greta Tommesani; i dialoghi; le frasi proiettate; lo spazio scenico quasi asettico, delimitato da un tappeto bianchissimo come le pareti di Magnete che gli fanno da fondale: tutto restituisce un’atmosfera in cui ogni secondo conta, in cui nemmeno un istante può essere sprecato. Quello che conta non è chi sei ma quanto produci. Greta Tommesani apre lo spettacolo con una serie di movimenti ritmici e ripetitivi, per poi raccontarci che sta provando “la tecnica del pomodoro”. Questa tecnica, finalizzata alla sconfitta di quel grande nemico che è la procrastinazione, prevede che chi la pratica lavori ininterrottamente per 25 minuti per poi fermarsi per 5 minuti, idealmente per mangiare un pomodoro, ma è concesso anche fare un pisolino. Questa tecnica mi era sconosciuta fino a prima di vedere Ca-Ni-Ci-Ni-Ca, ma sono sicura che ha fatto capolino anche nell’algoritmo di qualche studente in sessione che ci legge. Se lo spettro dell’iperproduttività permea a tal punto la nostra società che può intrufolarsi anche nell’ambiente protetto delle nostre case, è inevitabile che lavori “pagati a cassetta” come quello raccontato nello spettacolo, ovvero quello di chi i pomodori effettivamente li raccoglie, diventino un’interminabile corsa verso l’iperproduttività. Ca-Ni-Ci-Ni-Ca ci racconta questi lavori cercando una prospettiva inedita, lontana dalla narrazione che incontriamo normalmente sui mezzi di informazione, tutta volta a impietosire. Non c’è distacco, non c’è superiorità. Siamo abituati a renderci conto delle condizioni di chi lavora in questo campo solo quando succede una tragedia. Dietro questi lavori però ci sono persone, ci sono storie e Ca-Ni-Ci-Ni-Ca prova a farcelo capire. Greta dà voce e volto a una di queste storie in una video-intervista proiettata a metà spettacolo, una storia che non parla necessariamente di marginalità ma che cerca di farci capire quanto questo tema riguardi tutti noi. Particolare la scelta di usare un volto e una voce caucasiche, come appunto quelle di Greta. Questa scelta sembra una stonatura, ma forse proprio perché ci allontana dalla visione stereotipica di questa categoria introiettataci dai media. Una visione che dipinge chi lavora nei campi di pomodori come delle vittime, qualcosa di lontano, di altro da noi, qualcosa che non viene raccontato. In Ca-Ni-Ci-Ni-Ca traspare la frustrazione di chi è costretto a non vedere mai raccontata la sua storia, a rimanere nel non detto. Questa frustrazione, questa rabbia esplode nel finale quasi splatter dello spettacolo in cui tanta, tantissima polpa di pomodoro macchia irrimediabilmente il bianchissimo spazio scenico, rimasto intonso fino a quel momento. Interessante a questo proposito anche l’uso della LIS (la Lingua Italiana dei Segni), che in questo spettacolo viene utilizzata come semplice espediente narrativo. Viene da chiedersi se non sia anche questo un modo per dare voce a una categoria esclusa dalla narrazione mediatica e, soprattutto, dai teatri. “Lo faccio in LIS così mi sembra di non farlo”, ci dice a gesti Greta Tommesani all’inizio di una lunga sequenza in cui Federico Cicinelli traduce agli udenti ciò che lei comunica in LIS. Farlo, dirlo, in LIS comporta che nessuno o pochissimi nel pubblico capiranno ciò che Greta ci dice, comporta che le sue parole cadrebbero nel vuoto se non ci fosse Federico a tradurre. L’uso della LIS in questo spettacolo è solo un piccolo passo avanti ma restituisce quanto realmente, determinate categorie, senza che ci sia uno sforzo collettivo, rimangono senza voce. Ca-Ni-Ci-Ni-Ca parla però anche a chi “ha una vita canonica”, a chi rientra negli standard. Fa infatti emergere un dilemma che è lo specchio del nostro tempo: quello che riguarda il collocarsi di ognuno di noi tra consumismo e ambientalismo. Ogni giorno siamo costretti a compiere centinaia di scelte. Finché si tratta di non dare intenzionalmente fuoco a un bosco o versare tonnellate di petrolio in mare, almeno per chi si dichiara in minima parte ambientalista, c’è poco da ragionarci. Spesso è però difficile comprendere quanto realmente possiamo agire nella lotta al cambiamento climatico, nella lotta per un futuro più giusto. Spesso viene da chiedersi quanto un vivere e un agire sostenibile non siano un lusso.

ph. Alvise Crovato


















Ca-Ni-Ci-Ni-Ca (ph. Alvise Crovato)

Sardanapalesco?
Sardanapalesco?, la tavola rotonda del pomeriggio del 15 giugno, condotta da Diletta Bellotti e Federica Castelli, ci porta a interrogarci proprio su questo. “Sardanapalesco” è un sinonimo di lussuoso, come hanno spiegato i ragazzi della DAPU30 a fine incontro. Questo cerchio di parola, incentrato in particolare sulla sostenibilità sociale, ha portato i partecipanti a ragionare sullo spazio pubblico ponendo uno sguardo politico sulle città e sui corpi che le attraversano, in particolare su quelli che sono “corpi ospiti”, fuoriluogo o addirittura invisibili. Per riflettere insieme su questo tema, ai partecipanti, invitati a lavorare in piccoli gruppi, sono state poste 5 domande che vi lascio qui, in caso voleste rispondere:
Quali emozioni (voi) legate allo spazio urbano? Quali oggetti portate nello spazio pubblico per sentirvi sicur*? Se doveste portare un oggetto in uno spazio pubblico per dichiararlo vostro, quale sarebbe? Quali pratiche collettive portereste in una città transfemminista? Con quali specie non umane vi alleereste?
L’idea era partire dall’intimità, dalle emozioni e dalle sensazioni per operare una trasformazione attraverso nuove e condivise pratiche. Ma cosa c’entra il lusso con tutto questo? Se provate a rispondere alla domanda numero 4 vi renderete conto di quante delle idee che vi vengono siano realmente attuabili senza limiti sociali o, perché no, anche di budget. Un altro limite importante in questo senso è sicuramente quello della sicurezza. Certo, in un mondo più giusto, potremmo tutte tornare a casa vestite come vogliamo e scegliendo qualsiasi tragitto. Nella realtà non basta volerlo per far sì che le cose cambino e bisogna capire come collocarsi nel sottile equilibrio tra la lotta e l’autoconservazione.

ph. Alvise Crovato


















ph. Alvise Crovato

Il festival e la città
Sardanapalesco?, al contrario delle strade di Milano, si è posto come uno spazio sicuro, in cui sentirsi a proprio agio nel condividere pensieri e sensazioni anche molto intime. L’atmosfera che si è creata durante questa tavola rotonda si è infatti collocata perfettamente in continuità con uno di quelli che è l’obiettivo di BTTF: creare relazioni, in uno spirito che ha caratterizzato non solo questo incontro ma anche tutti i momenti di convivialità del festival. L'obiettivo è stato raggiunto, anche se forse non del tutto. Parlando con le ragazze della DAPU30, traspare come questa esperienza abbia sicuramente creato nuovi legami, una vera condivisione, e abbia risposto alla loro necessità di confronto. Ma da queste nuove relazioni è però rimasto escluso il quartiere. Quartiere Adriano è un luogo particolare. Sconosciuto o comunque scarsamente frequentato anche dai milanesi più incalliti, Quartiere Adriano si colloca nella periferia nord-est di Milano ed è uno dei tanti quartieri dormitorio della città. Mal collegato alle altre zone e, suo malgrado, dotato di pochi luoghi di cultura e aggregazione, rimane in sostanza isolato dal resto della città e, forse, anche al suo interno. BTTF è anche un'occasione per conoscere un pezzo di Milano poco frequentato da chi non lo abita. I luoghi del festival parlano molto del quartiere e sono senz’altro fortemente radicati nella sua comunità. Magnete stesso, oltre a essere il fulcro del festival, è utilizzato anche l’auditorium dell’RSA di Adriano. Cascina San Paolo, dove si sono tenute le attività collaterali della giornata di domenica, ha abbandonato il suo passato contadino per diventare “uno dei centri socio ricreativi e culturali per anziani più virtuosi di Milano”, come ci raccontano le ragazze della DAPU30 nell’ultimo numero di "Note a Margine - Appunti da Quartiere Adriano", magazine di quartiere nato dalla terza edizione di BTTF e che guida i cittadini e i visitatori alla scoperta del quartiere e dei suoi segreti. Il coinvolgimento dei residenti della zona - non solo durante le giornate di manifestazione ma anche il resto dell'anno - fa parte del progetto di Ecate. Il tempo a disposizione in un festival è limitato, ma potrebbe essere interessante dedicare maggior spazio alle pratiche di prossimità, che magari si traducono anche in un maggior coinvolgimento di chi abita nella zona. Nella DAPU30 non ci sono ragazze che abitano o lavorano in Adriano, salvo Fedra (28 anni), che fino a qualche anno fa abitava in un’area limitrofa, a Crescenzago. Anche in questo "Note a Margine" ha un ruolo essenziale. Margherita (24 anni), membro della DAPU30, mi ha raccontato che, forse proprio perché “da grande” vuole fare l’urbanista, l’inchiesta sul quartiere per l’ultimo numero del magazine è stata per lei essenziale.

MOOD DEL FESTIVAL: Asado de fa di Sara Hebe (scopri tutti i mood dei festival del TourFest 2025)

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